Lib(e)ri in scena: intervista a Paolo Di Stefano
|Oggi “in scena” I PESCI DEVONO NUOTARE di Paolo Di Stefano che compie il salto da immigrazione tema di dibattito politico a tema di ispirazione letteraria. L’autore lo ha definito “un libro sulla potenza di salvazione della lingua”. La lingua, il livello superficiale della cultura, è quella che più facilmente si può com-prendere, quindi farne possesso. Un possesso che vale come il codice fiscale per l’accettazione. Sottrae al limbo coloro che sono sospesi tra due terre che in modi diversi li respingono. Noi che abbiamo ridotto ogni cosa ad un codice PIN siamo portati a riscoprire la potenza della parola come vera chiave d’accesso, anche verso una vita migliore.
Prima che il freddo lo porti via, ho rivolto qualche domanda a Paolo Di Stefano
Si è parlato nel dibattito di “integrazione” e identità; l’integrazione è bilaterale:questo comporta che entrambe le parti coinvolte nel processo debbano rinunciare ad una parte della propria identità?
No, io non credo. Credo che abbia ragione Dacia Maraini quando parla di identità come “sommatoria”. Sommatoria di diverse caratteristiche, caratteri antropologici, abitudini, usi, lingue. L’italiano è il risultato di lingue diverse e le lingue insegnano moltissimo perché cambiano continuamente e si mescolano.
Quindi per lei non vale la definizione che ha dato la letteratura postcoloniale di “identità ibride”?
Vale l’identità ibrida, ma non c’è una rinuncia. L’identità ibrida è qualcosa che contempera l’una e l’altra. Poi è buona l’intenzione di rinunciare a qualcosa, a certe zone della nostra memoria che non servono o sono cascami inutili. La cultura è un processo di integrazione di varie cose in cui alcune cadono necessariamente, altre rifioriscono e si mescolano. Però l’intenzione della rinuncia non mi piace. La rinuncia è qualcosa che viene dopo, quasi senza accorgersene.
Nel suo libro si parla dell’apprendimento di una lingua d’arrivo per sviluppare l’integrazione. Tra i suoi personaggi alcuni ancora balbettano l’italiano, con pastiches linguistici bizzarri. La loro lingua fa venire in mente le lingue creole che si forgiavano nei porti del Nuovo Mondo anche lì in uno scenario migratorio. E l’Italia è un “porto”: si sale sul barcone senza una precisa destinazione e la farraginosità delle leggi lascia sospesa anche la collocazione. Scegliere almeno quale lingua da imparare è un modo di riaffermare una libertà, una indipendenza, una volontà che si è invece persa?
Imparare una lingua è sempre una scelta di indipendenza e non di dipendenza. Imparare un’altra lingua significa acquisire una possibilità ulteriore di colloquio, di dibattito, di apertura verso gli altri. Quindi è una scelta di libertà. L’uomo più libero è l’uomo che parla tantissime lingue, secondo me, mentre l’uomo prigioniero di se stesso è quello che parla la sua sola lingua materna. Naturalmente quella lingua materna è bene impararla come si deve, ma al di là c’è la potenzialità enorme che ti dà la conoscenza di altre lingue.
FEDERICA TUDINI